Nordkapp 93

La vita è un viaggio... non importa quale sia la destinazione,

ma ciò che trovi lungo la strada

Chi avrebbe mai detto che un giorno avrei preso in prestito la citazione di un “cartone” per raccontare uno dei miei viaggi (A voi il compito di scoprire di chi sia).

Nulla di più vero, anche quando si sta preparando un'avventura in cui l'obiettivo, la sfida finale, sembra sovrastare ogni altro significato.

Quando ho pensato a Nordkapp '93, a compiere la traversata in bicicletta della Scandinavia e in particolare della Lapponia artica, in realtà il mio obiettivo finale suonava un po' come un pretesto. Raggiungere Nordkapp in pieno inverno, in sella a una bicicletta... non sapevo nemmeno se fosse possibile. Quando ho cominciato a progettare quel viaggio in realtà non sapevo nemmeno se sarei stato capace di stare in sella alla bici su tutto quel ghiaccio.

Ricordo ancora molto bene che a spingermi a disegnare quella traccia sull'atlante (le mappe di google ancora non esistevano), da Stoccolma a Capo Nord era stato sopratutto il desiderio di vedere da vicino il paesaggio scandinavo immerso nella neve e avvolto nei suoi tramonti brevi e veloci, ma dai colori così accesi da lasciare ogni sera senza fiato.


A Capo Nord non ci ero ancora stato quando ho pensato per la prima volta a questo viaggio. In realtà ci stavo andando... Era l'estate del 1990, e insieme ai compagni d'avventura Giorgio e Pietro stavo compiendo quella che ricordo come la vacanza più incredibile della mia vita. Il tour da Milano a Capo Nord, che con spirito un po' presuntuoso avevamo chiamato Nordkapp '90. A quei tempi erano stati già parecchi i ciclisti che avevano raggiunto Capo Nord in sella a una due ruote, d'estate. E noi stavamo portando a termine il nostro tour, a metà tra una maxi vacanza e un'avventura, con i suoi 5000 chilometri in autonomia. Già in quell'agosto del 1990, mentre pedalavo su e giù per le colline della Finlandia e della Norvegia pensavo a come sarebbe potuto essere quel paesaggio in pieno inverno. Coperto dalla neve; se possibile ancora più isolato e selvaggio. Ostile, ma al tempo stesso affascinante. Insomma un'attrazione alla quale non volevo, e non potevo rinunciare.

Così è nata l'idea di rimettermi in sella su una strada che, dopotutto avevo già percorso. Posso dire con una certa sicurezza che già a settembre del 1990 (eravamo rientrati a Milano dal tour estivo il 10 settembre) nella mia mente avevo cominciato a disegnare quel percorso e quel progetto.

Rimaneva solamente una cosa da fare: capire se tutto ciò era possibile.

Per questo nel gennaio del 1992, dopo un anno sabbatico utile a sognare e a rafforzare il mio desiderio, ho preso un aereo e mi sono spinto su, fino all'ultimo “avamposto” civile di quelle terre, la cittadina di Kiruna, immersa nella steppa della Lapponia svedese. Ho trascorso tre giorni da quelle parti in mezzo alla neve e a temperature mai superiori ai -20 gradi, cercando faticosamente qualcuno che fosse disposto a noleggiarmi una bicicletta per percorrere quei due chilometri che mi sono serviti a capire che sì, si poteva fare.

Ancora ricordo la faccia di quel ragazzo che all'interno di un emporio in stile vecchio west, ha accettato di prestarmi una bici per una mezzora. Gli avevo raccontato per filo e per segno la mia idea. E lui mi aveva risposto esattamente così: “sei pazzo. Non ci arriverai mai fino a Capo Nord in bici. E' impossibile”. Le stesse parole che io e Pietro (il mio compagno della seconda avventura), ci siamo sentiti ripetere più e più volte durante la nostra traversata nella Lapponia Invernale. Più d'uno ci diceva: “Lassù c'è il diavolo, non si passa”. Solamente passandoci avrei capito cosa intendevano, ma questa è una storia che si può raccontare più tardi.


Forse è capitato anche a voi. Ci sono momenti della vita nei quali le cose sembrano avverarsi lisce come l'olio. Quasi che ogni evento, ogni passo, anche ogni sospiro, si concatenino rendendo ogni cosa semplice e incredibilmente naturale. Mi piace pensare che in quell'inverno tra il 1992 e i 1993 tutto dovesse andare in quel modo. Ma se ci penso bene, prima di partire per il nostro viaggio abbiamo dovuto combattere contro tanti spettri e difficoltà. Lo sa bene Giulia, mia compagna di viaggio, in qualche modo forzata. E lo sanno bene anche Pietro e Giancarlo con i quali abbiamo condiviso gioie e dolori, anche estremi, di questa avventura.

Il 13 gennaio del 1993 eravamo al via, a bordo di un furgone 4 ruote motrici che Pietro aveva adattato a camper di fortuna, prevedendo anche di poter rimanere bloccati nella steppa in mezzo a una tempesta di neve.

Due biciclette Mountain Bike Ganna (il nostro sponsor) con assetto da discesa per avere un baricentro più basso. Un mare di ricambi tra cui ruote chiodate. Vestiti da alpinismo. E montagne di bustine riscaldanti pronte a qualsiasi uso.

Il 1993 sembra dietro l'angolo, eppure se penso all'abbigliamento e ai materiali tecnici di allora, mi pare di fare un balzo indietro nel medioevo. Giacche e maglie erano quanto di meglio offriva allora il mondo dell'alpinismo. Anche le scarpe usate erano degli enormi scarponi da ghiaccio, con scafo in plastica dura che ci faceva somigliare più ad astronauti che a ciclisti.

Il via è stato dato il 18 gennaio in una splendida giornata in cui il cielo di Stoccolma era chiaro e terso, quasi non sembrava di essere a un passo dall'inverno artico. L'esordio sembrava uno scherzo. Temperatura di -7 o -8 gradi. Un'ottantina di chilometri da percorrere su strade innevate solamente in piccola parte. Nessuno avrebbe mai immaginato lo schianto che avremmo vissuto appena tre ore più tardi. Già prima di mezzogiorno Pietro ed io eravamo seduti su un marciapiedi alla periferia di una cittadina distante 40 chilometri da Stoccolma. Le gambe non giravano. Il freddo aveva scaricato i muscoli e il corpo. Eravamo praticamente vuoti. Impotenti.

Ricordo ancora che abbiamo trascorso quella giornata ad interrogarci su cosa non aveva funzionato. Allenati lo eravamo. Avevamo corso, pedalato e camminato nell'inverno italiano. Io e Pietro, un po' folli, ci eravamo anche immaginati di poter risalire lo Stelvio in bicicletta durante il periodo di chiusura invernale, in dicembre. Il nostro sogno è durato meno di una decina di chilometri, quando la neve ci ha praticamente seppelliti e respinti. Ma sapevamo di essere pronti. Almeno, lo credevamo.

Le paure si sono piano piano dissolte nei giorni successivi, quando le gambe hanno lentamente cominciato a funzionare. 60, 80 e più chilometri ogni giorno. Strade asfaltate e solamente qualche fiocco di neve. Che fortuna. La nostra impresa sembrava un gioco da ragazzi.

Sveglia la mattina tra le 8 e le 9. Colazione. E poi il rito dell'uscita. Era l momento più duro, quello di mettere la testa fuori in quell'aria gelida e tagliente, per salire in sella alla bicicletta e cominciare a pedalare. Più in su si andava, più le tappe si trasformavano in angoli di vita senza tempo e senza luogo. Chilometri e chilometri di strada resa invisibile sotto una coltre di neve pressata. Un bianco così totale che in alcuni momenti faceva persino perdere la cognizione della strada, confondendo il tracciato pressato dagli spalaneve e i suoi bordi candidi. Più ci si spingeva verso Nord, più i villaggi si diradavano e la natura aspra e immacolata prendeva il sopravvento.

Per nove giorni Pietro ed io abbiamo pedalato seguendo la costa interna della Svezia, quella che si affaccia sulla Finlandia. Abbiamo raggiungo cittadine pittoresche e villaggi sempre più sperduti. La neve si faceva alta, sempre più alta. La strada era ormai solamente una striscia di neve pressata delimitata dai paletti gialli e arancio, immersa nel nulla.

Le sessioni di ciclismo erano essenzialmente tre ogni giorno, scandite dalle soste per rifocillarci e riscaldarci: dalla pausa per il caffè di metà mattina. Il nostro desiderio più grande era quello di raggiungere l'immancabile stazione di servizio che, anche sulla strada più desolata, prima o poi si mostrava come un miraggio nella neve. La pausa del pranzo, quella immancabile. Anche perché nella nostra logica di programmazione finanziaria il pranzo nei ristori dei camionisti era generalmente meno caro della cena. Quindi bisognava darci dentro.  La terza tappa era quella che generalmente doveva portarci a fondo tappa, nei pressi di un paesotto, di un albergo o di un bungalow nel quale trovare risposo e magari una sauna calda. Tutto è proseguito così fino a quel maledetto giorno, se non ricordo male la decima tappa che di lì a poco ci avrebbe portato in Finlandia. Per chi non lo sapesse l'intera scandinavia è un paesaggio collinare (vi tralascio la definizione dell'atlante), dominata da saliscendi continui che in alcuni casi assomigliano a quelli dei cartoni animali, con strade che salgono a più riprese prima di tuffarsi a capofitto in discese mozzafiato. Sulla neve, le salite erano faticose, ma a forza di osare, ci eravamo abituati ad ogni pendenza e lunghezza. Sulla neve, il problema sono le discese: il ghiaccio forma una patina che rende inservibili i tradiizonali freni a pattino (probabilmente oggi avremmo usato freni a disco, ma a quell'epoca, se mai fossero esistiti sarebbero stati un'elite, inaccessibile a noi. La neve schiacciata rende il fondo estremamente instabile. La pendenza non fa sconti sulla velocità. Sulle prime era stato anche emozionante tuffarsi in discesa letteralmente senza freni e gustarsi fino in fondo l'adrenalina di una corsa a più di 50 all'ora in un mare bianco senza confini, dall'esito imprevedibile. Alla lunga prevale la ragione e il gioco si fa preoccupante. Per noi non esisteva altra soluzione che togliere i piedi dai pedali, allargare le gambe e affrontare la discesa cercando di controllare il percorso fino alla fine, frenando con un piede e ammotizzando per quanto possiible buche e avvallamenti. Quel giorno però qualcosa è andato storto a Pietro. Aveva tolto un guanto per via di uno di quegli sbalzi termici che rendevano sempre più incomprensibile la gestione del nostro corpo. Quel guanto appeso ad un filo al suo polso, è finito inavvertitamente tra i raggi della bicicletta nel culmine di una discesa. L'incidente è stato istantaneo e devastante. Il volto di Pietro disteso sulla strada, incosciente, non si cancellerà mai dalla mia mente.